<<…essendo la mafia un fenomeno sociale indissociabile dalla politica, la sua formazione e i suoi sviluppi coincidono con le vicende di un tenace sistema di potere che ha caratterizzato la Sicilia. Si potrebbe addirittura sostenere che la storia della Sicilia politica è di per sé la storia della mafia>>.
Prof. Giuseppe Carlo Marino

Con questa dovuta premessa, si deduce che ci troviamo di fronte ad un fenomeno di lungo periodo di cui non si può fissare un data precisa, diversamente dall’uso del termine “mafia” in Sicilia.

Incominciamo appunto dall’origine del nome: la parola mafia non deriva né dall’arabo, come molti credono, in quanto essa è entrata nell’uso comune in Sicilia solo dal 1862, quando in Sicilia gli arabi da secoli non esistevano più e nessuno in Sicilia parlava arabo, né deriva dai tanti fantasiosi acronimi, perché deriva dal toscano, dove esiste da secoli nella forma con due  “F”, maffia e cosi fu introdotta in Sicilia subito dopo l’Unità d’Italia.

In Toscana essa significa «miseria», oppure «ostentazione vistosa, spocchia»; ed esiste nella forma con due “F”, maffia, e con lo stesso significato essa fu adoperata dagli studiosi e dagli scrittori siciliani come Giuseppe Alongi, Napoleone Colajanni, Giuseppe De Felice, Nino Martoglio che per primi si occuparono di questo scottante problema sociale ed ancora nel 1930 lo scrittore siciliano E. M. Morelli pubblicava a Palermo, un romanzo intitolato “I delitti della maffia” (con due F).

Lo riscontriamo nel lavoro teatrale di Giuseppe Rizzotto “I mafiusi di la Vicaria di Palermu”, che è di quell’anno (1862); e la parola aveva già subito il fenomeno dell’affievolimento fonetico, comune ad altre parole toscane entrate nell’uso comune siciliano dopo l’Unità d’Italia, per cui «macchina» diventa màchina, «malattia» malatia, e “mattino” matinu; e questa parola toscana, divenuta “mafia” in Sicilia, servì ad indicare  sia l’organizzazione segreta delle classi popolari, sia la braveria e l’ostentazione vistosa tipica dei mafiosi di allora.
E ancor oggi in Sicilia l’aggettivo qualificativo “mafiusu” non indica l’appartenenza ad una cosca mafiosa, o non solo questa, ma indica anche l’avvenenza di una persona, o la vistosità di un oggetto, per cui un bell’uomo è “nu picciottu mafiusu” un vestito elegante, una motocicletta, un’auto, sono  “vistiti” o “machina” o “motu” mafiusi.

Fu nel 1865 che il prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualterio, intuì il rapporto tra la “maffia” e la politica ed è sempre in quegli anni che il termine fu usato in riferimento ai delinquenti.

Già dal 1875 quasi tutte le lingue europee conoscevano il concetto di mafia.

Ma come e quando è nata la mafia come istituzione malavitosa come la conosciamo oggi?

Partiamo dalle parole del giudice Rocco Chinnici che, negli anni 80, durante un intervista affermò: “..prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Parole pesanti, pronunciate da una persona che aveva studiato il fenomeno mafioso, infatti Rocco Chinnici è considerato il padre del Pool antimafia, che compose chiamando accanto a sé magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello e che quindi la sapeva lunga sull’argomento.

Ciò non autorizza a cadere nella semplificazione opposta e che cioè la mafia sia nata soltanto con la formazione dello Stato unitario italiano.

C’è, infatti, un documento del 3 agosto 1838 in cui, a Trapani il magistrato Pietro Calà Ulloa ne fa una descrizione che riportiamo:
“Non vi è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quella della dipendenza da un capo. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza di forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’iscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di un’egida impenetrabile”.

Fenomeni “mafiosi”, tuttavia vengono riscontrati in tutte le società di tipo feudale, lo vediamo ad esempio nel romanzo “I Promessi Sposi” di Manzoni. Manzoni nel suo romanzo descrive i personaggi di Don Rodrigo, i Bravi: il Griso e il Nibbio, il conte Attilio e soprattutto l’Innominato, storicamente identificabile in Francesco Bernardino Visconti, ricco feudatario e capo di una squadra di bravacci che commetteva ogni sorta di delitti. I Promessi Sposi, prima ancora di essere la storia di due giovani amanti, è un romanzo storico e come tale ritrae la società del tempo, nella fattispecie quella milanese del 1600, i cui personaggi potrebbero tranquillamente essere accomunati agli attuali boss, picciotti o al potente colluso che per ottenere favori utilizza qualsiasi mezzo.

In realtà, la feudalità “istituzionale”, con i moti della rivoluzione francese venne abolita gradualmente in tutta Europa, a partire dalla Francia appunto nel 1789. In Italia ci si arrivò in seguito alle invasioni napoleoniche. Le prime regioni a muoversi in tal senso furono quelle del centro-nord che per prime furono assoggettate a Napoleone. Seguirono quelle del Mezzogiorno continentale governate da Giuseppe Bonaparte (1806) prima e da Gioacchino Murat (1811) dopo.
In Sicilia, dove Napoleone non arrivò mai, si giunse comunque all’abolizione della feudalità nel 1812 ad opera però di un Parlamento di rito feudale. All’atto della Restaurazione (dopo la caduta di Napoleone Bonaparte) e al ripristino degli antichi sovrani nei rispettivi Stati, re Ferdinando I Borbone, confermò l’abolizione della feudalità.
Malgrado tutte queste buone intenzioni, nel 1860, al momento dell’unità d’Italia, in Sicilia solo il 10% delle terre coltivabili era diviso in piccole proprietà mentre il resto era diviso tra i grandi proprietari terrieri e quindi di fatto la società rimase improntata su un modello di tipo feudale.

Ed è in questo tipo di società che già nel periodo medioevale, in Sicilia ritroviamo la figura del gabellotto, che subaffittava a terzi i terreni del padrone, ed in caso di liti o problemi giudiziari di altro genere, attuava una “giustizia privata”. In questi fenomeni è già rispecchiata la figura se pur semplice del mafioso “che risolve i problemi del clan nel clan”.

Ma ribadendo le parole di Chinnici, i fatti che hanno permesso l’involuzione di questi fenomeni “mafiosi” diffusi particolarmente in Sicilia, in mafia vera e propria nel Sud Italia come la conosciamo oggi, sono stati quelli che hanno interessato il Mezzogiorno negli anni dell’Unità d’Italia.

Cosa è successo dunque nel Mezzogiorno d’Italia?

E’ il 1860, e lo sbarco a Marsala dei Mille guidati da Garibaldi è agevolato dall’ammutinamento della marina borbonica, e dalla benevolenza di alcuni generali di stanza in Sicilia; mentre risalgono lo stivale, i garibaldini acquisiscono il consenso dei liberali, della diplomazia inglese e piemontese e della borghesia . Francesco II, per non tingere di sangue la capitale, porta il suo esercito a nord, al di là del fiume Volturno, e attende i garibaldini, che affronterà nella battaglia di Caiazzo. Stretti tra l’esercito di Garibaldi a sud e quello piemontese, che nel frattempo penetra da nord sotto il comando di Vittorio Emanuele II, i reggimenti napoletani si arroccano nella fortezza di Gaeta, dove resistono a lungo, ma senza possibilità di ribaltare gli esiti della guerra.

La classe popolare, unica voce non ascoltata, oppressa dalla fame, sconvolta dall’aumento delle tasse e dei prezzi sui beni primari, costretta alla leva obbligatoria, iniziò a rivoltarsi, sviluppando un profondo rancore verso il nuovo regime e soprattutto verso gli strati sociali che si avvantaggiarono degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche, impieghi e nuovi guadagni.

Nacquero bande di briganti, a cui aderirono non solo braccianti disperati ma anche ex soldati borbonici e banditi comuni. Nel corso dell’estate, in molte province dell’interno bande di briganti, formate in gran parte da contadini, ex soldati borbonici, diedero vita a forme di guerriglia violentissima, impegnando le forze piemontesi e battendole ripetutamente. Il Governo rispose con l’invio di un esercito di 120.000 uomini e ordinando esecuzioni sommarie anche di civili e l’incendio di interi paesi.

Non diversa era la situazione in Sicilia……

Qui la politica rivoluzionaria garibaldina si espresse ovviamente non solo con i decreti che vietarono il saluto baciamu li mani (bacio le mani) e il voscenza (vostra eccellenza) che era l’appellativo con il quale i contadini e i poveri si rivolgevano ai signori, ma soprattutto con l’aumentata pressione fiscale (le tasse di bollo e di registro, le altre fondiarie e scolastiche, fino a quella, già borbonica, sul macinato), la smobilitazione dei vecchi uffici pubblici del regno meridionale sostituiti dai nuovi con personale in gran parte settentrionale, la liquidazione, con gli ordini religiosi, di una rete di attività caritative che aveva soccorso i poveri e, infine, l’introduzione della leva militare, accolta come un attentato alle abitudini popolari (era noto che la Sicilia godeva di antichissimo privilegio dell’esenzione dalla coscrizione), provocò una reazione di rifiuto della popolazione nei confronti dello Stato. Centinaia si diedero alla macchia per sfuggire alla leva, creando o alimentando le bande di briganti. Inoltre il decreto (di per sè buono) del 2 giugno che ordinava la distribuzione delle terre dei demani comunali ai contadini (genericamente indicati come cittadini), aumentò ulteriormente la tensione, perché le terre comunali erano già usurpate da mediatori e speculatori e i contadini vedendosi impossibilitati a rivendicarne i diritti in modo legale, diedero origine a rivolte in decine di Comuni delle province di Palermo, Catania e Messina, contro i signori e i gabellotti. La pressione della miseria moltiplicò quindi il numero dei reati, dai furti generici all’abigeato, all’estorsioni, sequestri, spesso accompagnati da violenze e fatti di sangue.

Di contro gli organi dello Stato assunsero maniere forti: si instaurò un governo militare. Il governo rispondeva sempre più con autoritarismo ad una ribellione anch’essa sempre più esplosiva.

In questo disordine totale, la borghesia capì che se voleva mantenere i privilegi, era necessario che <<tutto cambiasse per non cambiare niente>>, che fu poi il senso della partecipazione dell’aristocrazia al Risorgimento. I baroni, insomma si preparavano a una nuova trattativa, questa volta con i ‘piemontesi’, e con questo obiettivo e con l’apporto decisivo di elementi “mafiosi” al loro servizio, si adoperarono a favore dell’Unità Nazionale. Fu così che Giuseppe Coppola, Santo Mele e Salvatore Miceli, personaggi “mafiosi” conclamati, divennero patrioti e garibaldini, insieme ad altre decine capi delle squadre di ‘picciotti’ tra i quali non pochi erano delinquenti evasi dalle galere.

Fu questo poi il momento in cui la mafia fece il salto di qualità tanto che, dopo il 1860, non ci fu paese della Sicilia occidentale che non vantava la presenza dell’organizzazione criminale. I mafiosi divennero migliaia, coprirono gran parte del territorio isolano, sconfinando in diverse zone della stessa Sicilia orientale. Il che fu favorito dal fatto che durante la rivoluzione si potenziarono le complicità tra i signori e la delinquenza comune. I proprietari terrieri infatti assunsero uomini armati come guardie del corpo e, dopo la rivoluzione, perdurò il ricorso privato alla protezione di uomini armati in grado di fronteggiare malandrini e briganti <<essendo gli armati stessi a loro volta malandrini e briganti>>.

Si formò in Sicilia una società senza Stato, cioè un assetto sociale disposto ad accettare il potere dello Stato nella misura in cui erano concessi vantaggi ai ceti privilegiati. Da qui conseguiva la debolezza del potere statuale e la tendenza del ceto politico e delle classi dirigenti locali a contrapporsi allo Stato per difendere i cosiddetti “interessi siciliani”.

Il passo decisivo avvenne con le elezioni politiche del 1874, qui la Sicilia mandò alla Camera 20 nuovi personaggi. Tra i nuovi progressisti c’erano dei baroni, tutti, a vario titolo, sedicenti <<campioni di democrazia>>, e numerosi personaggi in odore di mafia e persino dei delinquenti comuni promossi al rango di notabili, avviati a una prestigiosa carriera politica, come Raffaele Palizzolo o quel Sebastiano Cannizzo di Partinico, latitante per sfuggire a un processo nel quale era coinvolto con un’imputazione di omicidio, prosciolto subito dopo la sua elezione a deputato.

Si può ben dire che la mafia era andata finalmente al potere, con una fondamentale conseguenza, l’abbandono della pratica del boicottaggio, sostituito dalla tendenza a sfruttare le risorse dello Stato.

 

Fonti:
http://www.sperimentaleleonardo.it/itinerari/lavoromafia1/LA%20MAFIA.htm
http://www.skuola.net/temi-saggi-svolti/temi/mafia-tema.html
http://www.duesicilie.org/spip.php?article237
http://it.wikipedia.org/wiki/Questione_meridionale
http://www.duesicilie.org/spip.php?article32
http://www.sikelia.org/html/body_che_significa_mafia.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_delle_Due_Sicilie
http://www.danpiz.net/napoli/storia/FasiStoria.htm
http://www.castelmonteonlus.it/UserFiles/File/Nisio_Palmieri/LE%20ORIGINI%20DELLA%20MAFIA.pdf
http://www.ilportaledelsud.org/economiaR2S.htm
http://www.villachincana.it/villachincana/i-monti-sicani/cultura/lo-scrudato-vito/371-la-mafia-ed-il-brigantaggio-sono-stati-prodotti-dallunificazione-nazionale.html

4 commenti

  1. Non è vero! Il termine "mafia" deriva dall'arabo "mayas" che significa "forza, coraggio, bellezza". G. Pitrè, grande antropologo siciliano, ha riferito che il termine era di uso diffuso presso il popolo siciliano! Quello che dite è stato concepito da Santi Correnti, il quale, sperando forse in questo modo di salvare l'immagine della Sicilia, ha parlato di una origine toscana del termine, senza spiegare in che modo abbia potuto affermarsi e diffondersi in Sicilia, considerato ciò che ha riferito Pitré! Tra l'altro il Correnti ha ignorato le motivazioni di coloro i quali sostengono le radici arabe del termine "mafia", ed ha sostenuto l'origine del termine toscana, solo perché secondo lui, sbagliando, nei primi documenti, questo termine era trascritto con due "f". E' falso! Nei documenti si trova trascritto alternativamente con due "f", ma anche con una "f". 

  2. Ovviamente il Pitré riferisce che era di uso popolare già prima del 1862, a differenza di quello che sostiene il Correnti e che ormai molti riprendono pappagallescamente, pensando di essere originali!

  3. Questo articolo, me ne sono reso conto leggendolo, riprende punto per punto le tesi spesso "strambalate" sulla mafia di Santi Correnti, che fu un valente storico della Sicilia, ma non uno storico della mafia! Consiglio la lettura delle opere di Giuseppe Carlo Marino, es. "Storia della Mafia", uno dei massimi esperti della storia della mafia! Leggete e imparate!

  4. Questo articolo, me ne sono reso conto leggendolo, riprende punto per punto le tesi spesso "strampalate" sulla mafia di Santi Correnti, che fu un valente storico della Sicilia, ma non uno storico della mafia! Consiglio la lettura delle opere di Giuseppe Carlo Marino, es. "Storia della Mafia", uno dei massimi esperti della storia della mafia! Leggete e imparate!

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