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Antonio mi fu presentato pochi anni dopo da Salvatore. Magrolino e riservato a un primo sguardo poteva sembrare un ragazzo timido e impacciato. In realtà era tutt’altro. Leggendarie sono diventate le sue imprese che sfidavano il senso comune sfiorando se non il ridicolo spesso l’assurdo. Quando ancora non ci si conosceva, ai tempi del telefilm E-Team si era tagliato i capelli come Mister-T, alla moicana. E si era anche fatto delle foto che orgogliosamente andava mostrando agli amici più intimi. Un'altra volta, già diciottenne, aveva organizzato una discesa in canoa del fiume Ofanto, poco distante, che fungeva da confine naturale tra il territorio di Barletta e quello di Margherita. La storia fa parte delle tante finite negli annali degli amici; non posso perciò sottrarmi dal raccontarla.

Non si sa come, Antonio era venuto in possesso di una canoa e aveva deciso a tutti i costi di attraversare un pezzo dell’Ofanto. Noi l’avremmo accompagnato fino alla zona in cui si sarebbe dovuto calare per poi spostarci velocemente verso la foce, distante pochi chilometri, ad aspettarlo. I preparativi erano stati studiati alla perfezione. Innanzi tutto aveva indossato una muta da sub e poi si era munito di radio ricetrasmittente, di quelle amatoriali, che per la distanza in cui ci saremmo trovati, andava benissimo per comunicare. Ricordo che invano tentai di convincerlo a racchiudere l’apparecchio in un sacchetto di plastica per evitare che durante la traversata, potesse bagnarsi. Comunque ci incamminammo per le campagne e una volta arrivati nel punto concordato, insieme ad altri amici, calammo lui e la canoa in acqua e corremmo, in auto, all’estuario del fiume dove si era calcolato, meno di un’ora dopo, ci si aspettava di vederlo spuntare dall’ultima curva del fiume, fiancheggiata da alti canneti fluttuanti che parevano spettatori intenti a sincronizzare un’hola, sorridente e vittorioso verso di noi. L’attesa invece sarebbe stata molto più lunga. Attendemmo due ore impazienti divagando sulle possibili spiegazioni del ritardo. Poi ancora un’altra che iniziavamo seriamente a preoccuparci. Avevamo tentato di comunicare con il walkie talkie ma non c’era stato verso di sentire risposta. Ovviamente avevo pensato subito al consiglio disatteso e al fatto che l’apparecchio fosse caduto in acqua o si fosse semplicemente bagnato. L’attesa diventando sempre più lunga aveva trasformato la nostra impazienza via via in seccatura, irritazione, dubbio, preoccupazione ed infine in angoscia. Avevamo così deciso di avvisare la famiglia. Nel qual caso si trattava del fratello minore, Angelo, che preoccupatissimo, aveva addirittura deciso di allertare i carabinieri della zona. Se si fosse avvisato il padre, pensavamo, avrebbe passato molto più di un brutto quarto d’ora, visto il carattere non dei più morbidi del genitore. Ricordo che quando andammo in caserma Angelo, in preda ad una crisi di nervi, tentò di convincere i gendarmi a far alzare in volo un elicottero per cercare l’amato fratello. Gli risposero che tutto ciò era assurdo dato che prima di dichiarare una persona scomparsa bisognava aspettare almeno ventiquattro ore. Ritornati al fiume cercammo di ripercorrere il tragitto a ritroso nella speranza di incrociare il provetto atleta da qualche parte. Ma di lui nessuna traccia. Il sole iniziava a calare e in aperta campagna, non essendoci alcuna illuminazione, diventava altresì difficile scorgere le tracce di alcunché, così rassegnati decidemmo di andare via, chiedendo ad Angelo di informarci su ogni eventualità. Scoprimmo molto più tardi che l’avventuriero era riuscito a tornare a casa sano e salvo. Dato che questa peripezia fu vissuta da Antonio in completa solitudine, seppur varie volte ascoltata, per non incorrere in errori o inesattezze ho chiesto una descrizione di suo pugno; così lasciamo che siano le sue parole a raccontare l’accaduto:

Dopo essere rimasto incastrato per una mezzora in un albero posato proprio nel mezzo del letto del fiume,  in prossimità di una rapida, decisi di uscire dalla canoa e per fortuna. Perché un tronco dopo il nubifragio di qualche giorno prima era caduto orizzontalmente e se fossi arrivato a tutta velocità ci avrei sbattuto canoa e testa contro. Ci passai sotto poco dopo svuotai la canoa dall'acqua e ripresi a pagaiare ma oramai il sole stava tramontando così accostai, presi dei punti di riferimento che mi permisero la sera di recuperare la canoa nascosta da alcuni arbusti e a piedi con la muta mi addentrai tra le campagne a chiedere un passaggio. I primi, cornuti (l’epiteto è qui usato nella variante pugliese, adatto non solo per rinfacciare tradimenti, ma per un ventaglio di ingiurie, a seconda dei casi più o meno pesanti, abbastanza variegato, n.d.a.)  avvistati non si impietosirono. Il secondo contadino bravissima persona,  anche se aveva le fattezze di un serial killer,  mi accompagnò fino a casa. Lì chiamai i carabinieri avvisandoli che non ero morto. La cosa ridicola fu che quando ero incastrato nell'albero sentivo un rumore simile alle pale di un elicottero e  immaginavo i mie amici a capo dei servizi di salvataggio sul bordo del mezzo come in Vietnam per prendermi al volo; in realtà erano le pompe dei contadini che pescavano acqua dal fiume”  

Insomma se nella vita non volevi annoiarti, dovevi avere Antonio come amico.

Come previsto dopo poco meno di un paio d’ore di salita ci trovammo di fronte ad una struttura, probabilmente utile al riposo dei mandriani che usavano portare le bestie al pascolo, dal quale il nostro sentiero si diramava in due direzioni diverse.  Di fronte all’amletico dubbio sulla via da intraprendere, cercammo di fare mente locale al suggerimento della padrona di casa, ma come anticipato, nessuno riusciva a ricordare esattamente quale fosse. O meglio, chi suggeriva di avviarsi da un lato, chi dall’altro. Così decidemmo di percorrere il lato sinistro, perché naturale prolungamento della via fino a quel momento intrapresa. Per l’altro lato infatti bisognava aggirare il caseggiato e tra rocce e alberi la cosa pareva non funzionale. Così facendo, naturalmente sbagliammo!

Avete presente le scene dei film in cui si vede, ormai privo di forze, arrancare il protagonista nella sabbia cocente di un deserto sterminato? Ecco, a parte la sabbia, questa è la migliore descrizione del nostro gruppetto verso mezzogiorno, con l’aggravante che noi si era in salita.  Ormai troppo avanti per ritornare indietro e cambiare direzione, ci si spostava dolenti in un percorso che diventava via via più ripido e ignoto. Privo di vegetazione, già da qualche tempo, il terreno su cui camminavamo era diventato simile ad una sorta di deserto roccioso. E come nel deserto appaiono i miraggi, così ogni tanto qualcuno di noi giurava di aver visto, a chilometri di distanza, chi un’aquila, chi una marmotta, chi uno stambecco. Veri o no che fossero, il sole picchiava forte e si era veramente allo stremo delle forze tant’è che Antonio, visto un rigagnolo, iniziò un po’ per scherzo e un po’ no, a dichiararlo il lago della nostra meta. Pertanto, dato che lo si era raggiunto non occorreva fare un altro passo avanti. Salvatore, poco distante, pareva andare avanti solo per inerzia e ben accoglieva l’idea dell’amico di accostare quel modesto scorrere d’acque alla nostra destinazione.

Il problema era che il rilievo che si stava affrontando, oltre a diventare sempre più aspro iniziava a mostrarsi con la tipica forma a terrazzamenti tra loro collegati, ognuno dei quali visto dal basso dava l’illusione di aver raggiunto la cima del monte e con essa l’agognata pozza. Ma l’illusione e la speranza duravano giusto il tempo di arrivarne alla sommità e costatare che subito dopo se ne presentava da scalare un altro.

Ma come il giocatore di poker che ha accettato una mano rilanciando la puntata sa che una volta raccolta la scommessa dall’avversario, non sarà più possibile tornare indietro, e si augura continuando, di poter vincere, così noi si auspicava di raggiungere prima o poi questo benedetto laghetto. Si era costretti perciò ad andare avanti.

Antonio ed io, in un impeto di follia avevamo iniziato, un po’ per gioco un po’ per competizione, a salire questi ripiani accelerando in modo da arrivarne alle pendici, nella speranza di avvistarne subito dopo il lago, per esclamare vittoriosi di essere stati i primi a farlo.

Così superandoci a vicenda si procedeva in quelli che credevamo gli ultimi metri della nostra fatica. Salvatore dietro di noi, distante una decina di metri o poco più, completamente indifferente alla sfida, arrancava stanco e sfiduciato.

Accadde così che dopo un paio di alternanze, raccogliendo le ultime forze rimaste, riuscii ad avere la meglio sul mio rivale che comunque mi tallonava vicinissimo, arrivando esultante alla cima dell’ultima salita. Qui però qualcosa di completamente inaspettato mi terrorizzò tanto da lasciarmi completamente paralizzato.

Davanti a me, a pochissima distanza, quattro enormi bestie nere, come un Cerbero disgiunto, incazzate quanto Mike Tyson ai tempi d’oro, dopo aver sentito insultare come meretrici, i componenti femminili della sua famiglia, fino alla settima generazione, si apprestavano fameliche ad avvinghiarsi al mio giovane collo.

Sapete quando raccontano che le persone un attimo prima di morire e giungere alla destinazione meritata sono costrette a rivedere tutta la vita in un attimo? Credeteci o no, io quel flash, in quel momento, l’ho vissuto veramente. Mentre il corpo rimaneva completamente immobile, impietrito dalla paura, la mente, ormai conscia e rassegnata all’idea di dover procedere a miglior vita, ripassava veloci tutti gli attimi salienti della mia esistenza. Il caldo e buio rifugio dell’utero materno, la luce sfolgorante della nascita, il primo vagito, la prima poppata, le prime parole pronunciate, i primi amici, la prima bicicletta, il primo bacio e così via. Se ci fu un giudizio, non ricordo, ma a costo di parere presuntuoso credo che come risultato, a conti fatti, il Paradiso non doveva poi sfuggirmi di tanto.

Per quanto all’apparenza interminabile, il fatto in realtà si svolse in brevissimi istanti. Con le pupille immobili percepivo le mostruose figure canine sempre più a portata di gola, la quale in uno slancio di eroica utilità ero ormai rassegnato a offrire in sacrificio, se non altro per salvare i compagni di viaggio dalle affilate zanne assassine. Mi volsi, infatti, un attimo per tentare di fare da parte Antonio che avrebbe dovuto trovarsi accanto a me; che anzi, un nanosecondo prima, ne sono sicuro, era accanto a me.

E invece incredibilmente, con mio più che sommo stupore, si trovava già oltre una decina di metri distante, mentre, rotolando a gambe levate, cercava contemporaneamente di avvisare Salvatore, siccome più in basso completamente ignaro di tutto, farfugliando ansimante quello che nelle sue intenzioni doveva risultare un avviso a non procedere oltre.

Salvatore, non potendo vedere la scena di terrore che si stava svolgendo, dato che i cani si trovavano sul terrazzamento poco sopra, non capì subito il perché di quell’agitazione, ma spaventato dal repentino ritiro di Antonio e forse avvisato dagli atroci ululati delle bestie rabbiose, decise istintivamente di indietreggiare.

Ora per quanto possa sembrare assurdo e improbabile, vi posso assicurare che veramente Antonio era, durante i fatti descritti, accanto a me e veramente un attimo infinitesimale dopo era invece a dieci metri più in basso. Le leggi della fisica, la sua massa corporea e la poca prestanza atletica non permettevano la possibilità che fosse riuscito a compiere, seppur in discesa, oltre dieci metri in meno di quello che doveva risultare un decimo di secondo o poco più. Qualcosa di mirabolante e inspiegabile doveva essere accaduto. Dopo aver scartato l’eventualità che fosse diventato un velocista da primato mondiale, ma che dico, universale, dovetti arrendermi all’evidenza che in quel posto, poco prima di morire, io, avevo avuto il privilegio di assistere alla realizzazione del sogno agognato da ogni appassionato di Star Trek: sì, dovevo proprio aver visto con i miei stessi occhi compiersi un teletrasporto!

Certo avallando quest’ipotesi, con la fantasia, se ne potevano pensare tante altre. Che Antonio avesse potuto solo in quell’attimo usufruire dei poteri del superveloce Flash. Che fosse effettivamente lui il supereroe, che sotto le mentite spoglie di un ragazzo timido e magrolino fosse stato costretto dall’occasione a svelarsi. Oppure il tempo si era fermato per vari secondi per tutti ma non per lui. O ancora che il vero Antonio fosse arrivato prima di me, per essere subitaneamente sbranato dai cani e quello apparso più in basso fosse un suo gemello, a tutti sconosciuto, che segretamente lo scortava in ogni dove. O che un dio pietoso l’avesse scelto, eletto tra i tanti, per una qualche futura missione di salvataggio dell’umanità, pertanto non poteva perire insieme a me reietto e sacrificabile. E se invece gli autori di Matrix avessero avuto ragione? Era stato svegliato da quella che in verità è una simulazione informatica per essere portato nell’originale realtà, scomparendo così ai nostri occhi per riapparire poi, caricato dei poteri per affrontare e abbattere i cani, più in basso? In questo caso mancavano, però, telefoni per il collegamento e soprattutto i poteri acquisiti non risultavano poi così utili dato che gli stessi cani erano ben più in alto ormai a me vicinissimi. E poi all’uscita di Matrix mancavano ancora dodici anni.

No, no il raziocinio non poteva avallare queste assurdità. L’unica e sola ipotesi verosimile era che un buco spazio temporale l’avesse investito, smaterializzandolo, per poi rimaterializzarlo poco distante al sicuro: un teletrasporto, appunto!

Immerso in questi pensieri, non mi ero accorto del miracolo, quello sì vero, appena verificatosi ai miei piedi: i cani avevano smesso di avanzare e si erano fermati, continuando ad abbaiare come idrofobi, proprio al ciglio del terrazzamento a pochissima distanza dal punto in cui, ancora impietrito dalla paura, rimanevo immobile.

Svegliandomi da quell’incantamento, corsi come un pazzo giù per la discesa in modo da allontanarmi il più possibile dal pericolo e raggiungere i miei compagni non troppo distanti. Se l’eletto non ero io, il dio pietoso aveva comunque deciso di salvare anche me. O verosimilmente i cani si erano arrestati a quello che era il confine della struttura che proteggevano, che grazie al cielo, essendomi fermato, non avevo superato che per pochissimi centimetri.

Come cantavano i Simple Minds, anch’io ero alive and kicking, vivo e scalciante, come appena nato, o meglio rinato. A dir la verità non lo diedi tanto a vedere e per quanto fossi felice come un condannato a morte a cui viene rimessa la pena, mi accostai, col fiatone, ai due amici senza esternare troppo le emozioni che elettrizzanti allora vibravano in tutto il corpo.  

Salvatore che ancora doveva capire cos’era successo, chiedeva a me e ad Antonio spiegazioni. A noi due non rimase che esplodere in una fragorosa risata,  amplificata dall’eco, che inconsci offrimmo alla valle a mo’ di ringraziamento per il pericolo scampato.

Così ci riposammo un po’, ci rinfrancammo per poi continuare la nostra marcia. Ormai raggiungere il lago era diventata una questione di principio. E lo raggiungemmo questo lago. Anche se non posso affermare con sicurezza a quale lago si arrivò, noi comunque, che fosse quello giusto o no, un lago riuscimmo a vederlo!

A oltre 2500 metri di altezza, tre ragazzi di diciassette anni finalmente miravano, stremati ma appagati, questo meraviglioso lago di montagna. In verità dire meraviglioso è forse un po’ esagerato. Diciamo che si trovavano di fronte ad una conca, non troppo grande, riempita chissà da quale fonte, evidentemente in quel momento interrotta, da acqua salmastra mischiata a vegetazione morta che gli conferiva un particolare colore verdognolo. Al suo interno, a quel che ricordo, nessun segno di vita.

Come estensione e forma ricordava molto un laghetto che avrei più volte visitato dopo essermi trasferito a Torino. Situato nel bellissimo parco Marco Carrara con la particolarità di avere al suo interno una grande quantità di tartarughe d’acqua dolce. Il lago l’inverno ghiacciava completamente e se il giovane Holden si chiedeva dove andassero a finire le anitre quando il lago gelava, io similmente mi chiedevo dove cavolo andassero le tartarughe quando il laghetto della Pellerina si trasformava in una compatta distesa di ghiaccio. Ma queste erano domande esistenziali che mi avrebbero tormentato molto più avanti negli anni.

Noi, in quel momento si era sulla vetta del mondo, felici di aver intrapreso quel viaggio e con esso di averne suggellata un’amicizia che il tempo e le burrasche della vita ancora oggi non sono riusciti a scalfire.

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